“Se vogliamo raggiungere una vera pace in questo mondo, dovremo incominciare dai bambini.”
Mahatma Gandhi

"Violenza ostetrica", leggenda o tabù?

"Violenza ostetrica", leggenda o tabù?

Purtroppo l’8 marzo è ancora un’occasione per ricordare che la violenza, le molestie e gli abusi perpetrati sulle donne sono un tema sempre attuale; ma c’è una forma di violenza, in genere compiuta in buona fede ma non per questo meno dolorosa, che rimane una specie di tabù e fatica a essere riconosciuta, perché avviene in una situazione delicata e complessa: la venuta al mondo dei propri figli.

La nascita di solito è un evento gioioso, ma in casi estremi può diventare un’esperienza traumatica e avere ricadute negative sul benessere della madre e sul rapporto con il bambino. Se in passato la donna era impotente davanti alla natura, con l’avvento della tecnologia può sentirsi indifesa di fronte agli interventi invasivi sul proprio corpo. Le modalità direttive della medicina e la definizione del parto come un evento potenzialmente patologico incoraggiano la delega passiva, mentre l’uso disinvolto di una serie di procedure non prive di rischi – induzioni, accelerazioni farmacologiche, pressioni addominali, episiotomie, tagli cesarei – espone il corpo femminile a una manipolazione intensiva, spesso accettata con fatalità in nome della sicurezza, oppure accolta con le braccia in croce e il sorriso della madre oblativa, ma vissuta nell’intimo come un’amputazione della potenza femminile e dei suoi simboli. Per questo si parla di “violenza ostetrica”. Il fenomeno inizia ad avere risonanza, come dimostrano le associazioni e le iniziative che danno voce alle donne in difficoltà. Tra queste ricordiamo il gruppo attivista italiano Freedom for birth – Rome action group e Roses Revolution, un movimento globale contro la violenza, al quale hanno aderito diversi paesi in tutto il mondo. Del fenomeno si sono occupate anche alcune importanti testate giornalistiche come Repubblica , Le Figaro, Elle, ma anche il Corriere del Ticino, e sull’argomento sono stati scritti dei libri, tra cui il recente libro di Marie–Hélène Lahaye Accouchement. Les femmes méritent mieux. Inoltre in Italia e in altri paesi sono stati fondati degli Osservatori sulla violenza, che hanno lo scopo di documentare e monitorare il fenomeno attraverso una serie di azioni e campagne come Basta tacere, mentre in Argentina, Venezuela e Messico è già stato introdotto il reato di violenza ostetrica.

“VIOLENZA OSTETRICA”: QUALE DEFINIZIONE?

La violenza nell’ambito dell’assistenza natale è un fenomeno complesso per la varietà delle sue forme. Allo stato attuale non esiste una definizione ufficiale e condivisa di “violenza ostetrica”. Secondo il collettivo CIANE essa consiste in una “perturbazione della relazione di cura” intesa nella sua globalità e può essere sia fisica che psicologica e verbale – posizione del parto imposta, solitudine, ricatti emotivi, uso di frasi irrispettose o maschiliste, battute a sfondo sessuale.

Nella letteratura scientifica la violenza ostetrica è associata a uno stato d’impotenza e agli interventi subiti passivamente, dati per scontati dai medici o percepiti come non necessari. Le procedure invasive possono essere traumatiche in assenza di un rapporto di fiducia solido, basato sull’ascolto, sul rispetto dei valori personali e sulla partecipazione alle scelte cliniche. Il benessere materno invece è correlato con il sostegno ricevuto, la percezione del controllo, la qualità dell’informazione. Le linee–guida recenti sostituiscono il concetto di “scelta giusta” con quello di “scelta consapevole”. Un’informazione corretta sulle alternative possibili e sui margini di dubbio della medicina rende la decisione materna meno drammatica, incoraggiando l’assunzione di responsabilità della donna e limitando la percezione di essere “in trappola”. A volte il vissuto di violenza è favorito dalla deferenza verso i medici, che impedisce di porre le domande utili per sé, oppure dall’assenza di supporto empatico e di comprensione. Si dimentica che una procedura invasiva, anche quando è necessaria, può essere dolorosa per la donna perché non rispetta  i significati che lei attribuisce al proprio corpo. Nei casi gravi la violenza ostetrica può dare luogo a depressioni e sintomi postraumatici, che non devono essere sottovalutati e necessitano di una presa a carico. 

Parlare di violenza ostetrica non significa mettere in dubbio la buona fede dei medici e del personale ospedaliero. Secondo un’accezione attestata dai dizionari, la violenza è nell’atto o evento in sé e nei suoi effetti dolorosi. In altre parole, la violenza ostetrica non è definita dalle intenzioni, ma dalla natura e modalità dell’intervento e dai suoi effetti, che sono diversi dal risultato clinico. La Treccani definisce “violenza” l’alterazione non necessaria del corso naturale degli eventi, come l’eccesso di medicalizzazione nei travagli fisiologici. Infatti l’uso routinario di protocolli e procedure che non rispettano i bisogni primari e psicologici della donna e del bambino può aumentare i rischi del parto innescando una cascata di interventi.

PREVENIRE È MEGLIO CHE CURARE

In ambito medico il disagio della donna è spesso attribuito alla fragilità personale, alla natura critica del parto, alle aspettative deluse, eccetera. Gli argomenti ufficiali hanno una loro verità, ma possono essere depistanti. Il vissuto del parto dipende sia da esperienze e risorse individuali, sia dalle modalità dell’assistenza. Le future madri sono donne fragili che hanno scelto di essere forti, perché stanno per mettere al mondo una nuova vita. Secondo l’ostetrica Verena Schmid la vulnerabilità femminile è un’ “apertura” dotata di un potenziale positivo. Con il sostegno giusto, il parto migliora la capacità della donna di affrontare situazioni critiche e difficili. La risposta all’insicurezza materna non è la tutela paternalista, ma l’empowerment, riferito al dovere etico di chi si trova in una posizione superiore e istituita di aiutare la persona fragile a mobilitare le proprie risorse e assumere un ruolo attivo, contribuendo a bilanciare i poteri in una relazione di natura asimmetrica.
Il parto è un’esperienza positiva quando la donna sente sia il limite sia la forza del proprio corpo. Le nuove raccomandazioni dell’OMS del 2018 insistono su un approccio globale alla nascita, rispettoso della fisiologia del travaglio e dell’autonomia della donna, mentre una serie di articoli pubblicati sulla rivista The Lancet conferma l’efficacia della “midwifery” specializzata, ossia dell’accompagnamento continuo di una levatrice di fiducia che promuove le capacità e le risorse della partoriente e coordina l’intervento delle altre figure professionali. La salute del parto passa attraverso la promozione degli atteggiamenti e delle pratiche che valorizzano gli aspetti istintuali, sessuali ed esperienziali della nascita e la figura femminile della levatrice. Secondo questo modello, nei parti non complicati il ricorso ai farmaci e alla chirurgia dev’essere limitato ai casi in cui non è più possibile favorire la fisiologia del travaglio e alleviare il dolore materno.
Nel 2017 il Collettivo francese CIANE ha elaborato una serie di raccomandazioni per combattere la violenza ostetrica. Il documento sottolinea l’importanza del dialogo tra medico e paziente, con particolare attenzione alla qualità dell’informazione e alle modalità del consenso informato, inteso come un processo graduale invece che come un semplice atto formale. Spesso la violenza ostetrica è “ordinaria”, cioè non è percepita come tale dal personale curante e nemmeno dalla donna che la subisce come una fatalità. Per questa ragione è importante da un lato offrire ai medici gli strumenti per capire il punto di vista e il vissuto delle donne, dall’altro raccogliere le testimonianze e le segnalazioni di violenza per garantire un ritorno d’informazione. La “liberazione della  parola” femminile è salutata dal CIANE come una chance per rivedere le pratiche e ripensare gli atteggiamenti, allo scopo di migliorare l’assistenza a un evento ritenuto di cruciale importanza non solo per le donne e i bambini che lo vivono in prima persona, ma anche per il benessere della collettività.

PRENDERSI CURA DELLA FERITA EMOTIVA

La negazione della violenza è una reazione comune alle vittime di abusi. In alcuni casi le donne che hanno avuto un’esperienza traumatica ringraziano il personale medico subito dopo il parto. Questo comportamento, in apparenza paradossale, è stato interpretato come una forma di difesa dettata dalla paura o dalla confusione. In genere il vissuto del parto emerge per gradi e le emozioni negative come la tristezza, la delusione, la rabbia, l’impotenza si manifestano soltanto quando la madre si sente di nuovo “al sicuro” nella propria casa. Diverse donne dopo la dimissione dall’ospedale provano un senso di solitudine, sia perché tutte le attenzioni sono rivolte al bambino e ai suoi bisogni, sia perché in presenza di un neonato sano il dolore materno tende a non essere capito. Il senso di isolamento spesso si accompagna a un sentimento di vergogna o inadeguatezza e alla paura di essere delle madri “sbagliate”. L’assenza di supporto e la difficoltà a legittimare il proprio vissuto doloroso possono ostacolare la guarigione della ferita emotiva.
L’analisi di ciò che è accaduto con l’aiuto di una levatrice preparata o una psicologa specializzata in questo campo può essere un primo passo per elaborare la propria esperienza. Inoltre, quando ci sono le condizioni, un colloquio con il/la proprio/a ginecologo/a può essere d’aiuto per avere chiarimenti, porre le domande importanti per sé, stimolare il medico a riflettere sul proprio ruolo e ad assumersi le proprie responsabilità. Con la mediazione di un esperto, il dialogo apre la strada verso una soluzione riparativa. In alternativa è possibile scrivere una lettera o una testimonianza. Negli ultimi anni sono fiorite diverse iniziative basate sulla solidarietà e autocoscienza femminile, e intese come momenti di ritrovo durante i quali le donne possono condividere liberamente i propri saperi, esperienze, riflessioni sul parto, sulla maternità e sulla condizione femminile trovando comprensione e sostegno. Tra queste ricordiamo i gruppi settimanali di incontri “Da mamma a mamma (organizzati dalla nostra associazione in collaborazione con le levatrici della Casa Maternità e Nascita Lediecilune, oppure le tende rosse organizzate dall’associazione delle doule. È anche possibile aderire ad azioni simboliche come la giornata mondiale contro la violenza sulle donne Roses Revolution (25 novembre), durante la quale le madri che hanno avuto un’esperienza traumatica possono depositare una rosa sulla porta della propria sala-parto.
In alcuni casi, una nuova nascita vissuta con consapevolezza e in autonomia può “sostituire” un precedente parto traumatico, mentre la scrittura autobiografica aiuta a elaborare la propria esperienza, cambiando la prospettiva da vittime passive di un evento a protagoniste del suo racconto. Gli psicologi americani Richard Tedeschi e Lawrence Calhoun hanno introdotto il concetto di “crescita post–traumatica” per descrivere il processo positivo di trasformazione personale dopo un trauma. Secondo il modello elaborato dai due studiosi, il trauma è simile a un sisma, perché scuote violentemente le fondamenta della persona, incoraggiando un lavoro di ricostruzione e consolidamento strutturale che conduce a una qualità di vita migliore. Con le dovute cautele, le ricerche dei due studiosi contribuiscono a una comprensione più ampia del trauma, non limitata all’osservazione dei suoi effetti negativi.
Da parte nostra vi incoraggiamo a compiere un primo passo in questo senso comunicandoci la vostra testimonianza.
Per saperne di più sulla violenza ostetrica potete leggere anche questo articolo.

07-03-2018

BIBLIOGRAFIA E LINK UTILI