“Se vogliamo raggiungere una vera pace in questo mondo, dovremo incominciare dai bambini.”
Mahatma Gandhi

Parto gemellare

Testimonianze

PARTO GEMELLARE

Un cesareo non desiderato che fa ancora male

S. e V. sono nate in una notte di luna piena. Ricordo i loro occhioni spalancati e le loro testoline strofinate sul mio volto. Da quella notte non riesco più a immaginare la mia vita senza le mie figlie.

Fin dalla prima visita ginecologica, la mia gravidanza gemellare è stata considerata aprioristicamente “a rischio”. Mi sono sentita subito una sorvegliata speciale. Più controlli, più precauzioni. Dopo la prima ecografia il ginecologo mi ha informata che l’incidenza dei parti cesarei nelle gravidanze gemellari è di gran lunga superiore rispetto alle gestazioni singole. Avevo la sensazione che il mio destino fosse già segnato, ma non mi sono data per vinta. Per tutta la durata della gravidanza ho desiderato, sognato, immaginato un parto naturale.

Le contrazioni sono iniziate durante la quarantesima settimana di gestazione. Io e le mie bimbe eravamo sane. Non c’erano complicazioni. La gravidanza aveva avuto un decorso normale. Il parto naturale che avevo a lungo desiderato, sognato, immaginato stava per diventare realtà.

Il mio sogno purtroppo non si è avverato.

Due giorni prima del parto il ginecologo mi scolla le membrane senza informarmi esattamente su questa procedura. Il giorno successivo decide di ricoverarmi e di rompere artificialmente il primo sacco. Non condivido questi interventi, che considero delle interferenze nel processo fisiologico del parto, ma non mi oppongo perché non sopporto più la tensione e ho fretta di partorire. Forse il mio corpo non è ancora pronto ma ormai non si torna indietro.

In sala parto mi sento malata senza esserlo. Ho un catetere inserito nel braccio, non posso mangiare e sono attaccata a un apparecchio per il monitoraggio fetale che limita la mia libertà di movimento. Devo spogliarmi nuda per indossare un camice da paziente. Sento scemare la mia volontà e assumo un atteggiamento deferente. Il personale sanitario è molto affaccendato e non dimostra empatia. Mi sento un numero.

I controlli della dilatazione sono più dolorosi delle contrazioni. Sono invasivi e provo vergogna. Il fatto di non essere padrona della situazione mi rende ansiosa. È la prima volta che partorisco.

La dilatazione avanza lentamente. Gli sguardi del personale sanitario mi inibiscono. Il mio tempo scade dopo tre ore di contrazioni. Il mio corpo non regge il ritmo scandito dall’orologio della clinica. Mi domando quali siano i criteri per valutare la progressione del travaglio. Il ginecologo decide di somministrarmi l’ossitocina sintetica, che provoca contrazioni più frequenti e intense di quelle prodotte dall’utero spontaneamente. Richiedo la peridurale perché ho paura del dolore.

L’anestesia limita ulteriormente la mia libertà di movimento, devo rimanere sdraiata e non riesco più a sollevare le gambe. Continuo a roteare e fissare le dita dei piedi per sentirmi viva. Non avverto più alcuna sensazione dall’ombelico in giù. Sono affranta e ossessionata da un unico pensiero: come posso partorire le mie bimbe in queste condizioni? Mi arrendo e trascorro sei ore inerte sul letto. L’apparecchio indica che V. accusa i primi sintomi di sofferenza. È esposta senza la protezione del sacco alle contrazioni provocate dall’ossitocina sintetica. Forse ha capito che la sua mamma l’ha abbandonata.

È mezzanotte. Il ginecologo mi offre due alternative: prolungare il travaglio fino al mattino oppure praticare subito un cesareo. Non so con quanta consapevolezza acconsento all’operazione.

Durante i preparativi dell’intervento mi sento come la vittima di un sacrificio rituale. All’una di notte sono immobilizzata sul tavolo operatorio con le braccia «in croce», intontita dall’anestesia. Il mio corpo è come morto, non provo dolore ma riesco a percepire il bisturi che incide la mia pancia, le manovre e le pressioni per estrarre le bimbe. So che non si può più tornare indietro, che ci sono un prima e un dopo, che il mio utero e il mio addome non sono più intatti. Provo rammarico, rabbia e tristezza per il fatto di non poter partecipare attivamente alla nascita delle mie figlie. Mi sembra di tradirle. Mi sento mamma a metà. Chiedo di poter vedere le mie bimbe non appena sono estratte dalla pancia. Mi rispondono di no senza fornire spiegazioni. Ho il magone.

Quando nascono le mie bimbe stanno benone. L’indice Apgar di entrambe è di 8 su 10.

Nei giorni successivi al parto la ferita si infetta. Sono dimessa con l’infezione in corso, senza essere visitata da un medico malgrado mi lamenti che la ferita è gonfia e arrossata. Pochi attimi dopo aver varcato la soglia di casa con le mie bimbe tra le braccia – uno dei momenti più intensi ed emozionanti della mia vita – inizio a perdere sangue e pus. Un’ora dopo sono di nuovo in clinica per sottopormi al primo di una serie di dolorosi drenaggi che mi obbligano ad assentarmi quotidianamente da casa e dalle mie bimbe neonate. Il mio ginecologo è in vacanza. Sono seguita dal medico di guardia, che cambia ogni giorno. Sono molto provata e la mia soglia del dolore è bassissima. Sobbalzo sul lettino non appena mi toccano. Vivo i drenaggi come un ulteriore accanimento sulla mia pancia già martoriata. I medici di guardia sembrano non preoccuparsi né di sporcarmi con il disinfettante né di farmi male.

Per me partorire ha significato non veder nascere le mie figlie, sottopormi da sana a un intervento di chirurgia maggiore, perdere la mia integrità fisica, lasciarmi tagliare, aprire e ricucire la pancia strato per strato. L’impatto psicologico è forte. Mi sento come se avessi subito una violenza. La minimizzazione dell’operazione da parte dei miei cari e il paternalismo dei medici – «era il prezzo da pagare» – aumentano la sofferenza e mi fanno apparire il sacrificio del mio corpo come scontato. «Hai due figlie belle e sane, di cosa ti lamenti?» è la replica omertosa che ricevo quando cerco di spiegare che per me il taglio cesareo è stato una scelta dolorosa. La sofferenza psicologica di una madre durante il parto è una realtà troppo spesso negata.

Continuo a sentirmi una mamma a metà. Cerco la guarigione negli occhioni spalancati delle mie bimbe. Spero di trovarla.

Isabella